UN VIDEO SOCIAL PUO’ COSTARE IL LICENZIAMENTO. TRIB. DI ROMA N.6854/2023

27.09.2023

A CURA DELL'AVV. LAURA BUZZERIO

TAGS: VIDEO SOCIAL - DISCREDITO DATORE DI LAVORO - LICENZIAMENTO - LEGITTIMITA- CASS 6854/2023

INDICE

1 ) IL FATTO

2) LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA.-

*****

[1]

IL FATTO

Un video social può costare il posto di lavoro?

Ebbene si, ed è quanto capitato ad una dipendente di un negozio, a seguito di procedimento disciplinare, colpevole di aver pubblicato, su Tik Tok, un video nel quale screditava l'azienda datrice di lavoro.-

In particolare, alla donna veniva contestato di aver registrato - durante l'orario di lavoro, all'interno del punto vendita, facilmente riconoscibile e con il proprio smartphone – un video nel quale appariva la scritta "ed è solo mercoledì", intonando un jingle predefinito a mezzo del quale manifestava, con tono ironico e usando termini del tutto sconvenienti, la propria totale insofferenza e disaffezione all'attività lavorativa, a cui sarebbe dovuta essere in quel momento intenta.-

[2]

LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA

Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in persona del giudice Antonio Tizzano ha ritenuto fondato il licenziamento - nonostante le difese della lavoratrice, in primis la circostanza che il video era stato rimosso poco dopo la sua pubblicazione – in quanto:

"La gravità del fatto risiede sia nell'offesa in sé sia, e soprattutto, nella dimensione pubblica e potenzialmente indeterminata della stessa in conseguenza della modalità di diffusione, immediata e per lo più indiscriminata, di ogni contenuto postato sui social network".-

In particolare,

sotto il profilo oggettivo, il linguaggio utilizzato, i toni denigratori del video e il luogo in cui esso è stato realizzato, sono chiaramente allusivi e lesivi al contempo dell'immagine dell'azienda, perché dal video traspare un sentimento di disagio, di disaffezione e insofferenza verso il lavoro e/o l'ambiente di lavoro e, in definitiva, il disprezzo per l'azienda;

sotto l'aspetto soggettivo, è importante sottolineare la consapevolezza (della dipendente) che il video potesse circolare all'interno di una comunità indeterminata di persone, quindi l'incapacità di autocontrollo, nonché di un uso corretto e responsabile dei social network, unitamente all''indifferenza verso i possibili effetti negativi della propria condotta; il tutto senza escludere la circostanza che il video era stato rimosso, dopo un mese, e soltanto a seguito della contestazione datoriale;

per quanto riguarda il mezzo utilizzato, la condivisione su un mezzo con elevata capacità diffusiva[1], com'è la piattaforma social TikTok[2], di un messaggio irriverente ed offensivo verso l'immagine del proprio datore di lavoro perché denotante disaffezione, insofferenza e fastidio, non può essere derubricato a messaggio " ironico e goliardico", come denotato anche dall'utilizzo dei cd. Emoticon.-

Per quanto attiene alla mancata affissione del codice disciplinare – come eccepito dalla difesa della lavoratrice – il Tribunale capitolino richiama il principio per "Ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione", proprio come nel caso di specie.-

Naturalmente, non è stato l'uso, di per sé, dei social[3] a costare il posto di lavoro, quanto il messaggio che la lavoratrice ha, quanto meno, con superficialità divulgato, di discredito nei confronti dell'azienda, con tale mezzo.-

NOTE

[1] Che, inevitabilmente, aveva amplificato l'attitudine denigratoria del messaggio.-

[2] Probabilmente, le cose sarebbero state valutare diversamente se video fosse stato inviato "a mezzo WhatsApp ad una collega; Sul punto: "i messaggi scambiati in una "chat" privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse". Cass. 21965/2018.-

[3] Sul punto si veda https://www.ilperiscopiodeldiritto.it/l/un-video-ludico-su-tik-tok-non-giustifica-la-sospensione-dal-servizio-commento-al-tar-campania-sentenza-n-412-2021/

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