Illegittimo il licenziamento del dipendente che insulta e minaccia i colleghi su una chat privata Commento alla sentenza n. 854/2019 del Tribunale di Firenze Sez. Lavoro
A cura dell'Avv. Laura Buzzerio
TAGS: WHATSAPP - OFFESE CHAT PRIVATA - LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO
INDICE
1)INTRODUZIONE;
2) LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DEL LAVORO FIORENTINO.-
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INTRODUZIONE
Un lavoratore veniva licenziato, a seguito di procedimento disciplinare, per aver registrato e pubblicato su una chat di whatsapp, denominata "Amici di lavoro", alcuni messaggi vocali, riferiti al superiore gerarchico e ad altri colleghi, con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti.-
Nell'impugnativa di detto licenziamento, il ricorrente non contestava la paternità dei messaggi vocali, ma ne deduceva l'irrilevanza disciplinare in quanto gli stessi erano stati registrati in una chat privata, le cui comunicazioni dovevano essere ricomprese nell'ambito di tutela dell'art. 15 Cost.-
Di contro, il datore di lavoro aveva opposto di aver legittimamente intimato il licenziamento, essendo, tra l'altro, tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., a tutelare l'integrità fisica e morale dei dipendenti oggetto delle espressioni offensive e minacciose del loro collega.-
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LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DEL LAVORO FIORENTINO
Il Tribunale toscano riteneva illegittimo il licenziamento, attraverso un articolato percorso motivazionale, che qui, di seguito, si cerca di semplificare.-
La giurisprudenza di legittimità, da tempo, distingue tra
- messaggi diffusi tramite strumenti potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone (ad esempio una bacheca facebook);
- messaggi inviati tramite strumenti (ad esempio una chat facebook privata) ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che le comunicazioni ivi inserite siano conoscibili da soggetto diversi dai partecipanti.-
Nel primo caso, la Cass. n. 10280/2018 aveva ritenuto la natura diffamatoria (configurante giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.) delle affermazioni dispregiative formulate dal lavoratore nei confronti dell'azienda datrice di lavoro, su una bacheca facebook, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.-
Nella seconda ipotesi, la Cass. n. 21965/2018 aveva, invece, escluso la sussistenza di giusta causa, rilevando che l'invio di messaggi riservati ai soli ai partecipanti di una chat facebook) è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell'ambiente sociale.
Nella fattispecie in commento, i messaggi del ricorrente erano indirizzati a una chat riservata ai soli partecipanti, e pertanto, rientrante nella seconda ipotesi, quella prevista dalla Cass. 21965/2018, in quanto le comunicazioni erano state diffuse in un ambiente ad accesso limitato, con esclusione della possibilità che, quanto detto in quella sede, potesse essere veicolato all'esterno.-
Non essendoci, nel caso di specie, diffusione, neanche potenziale, di quei messaggi, pur recanti affermazioni gravi indirizzate a superiori o colleghi, le stesse non potevano essere qualificate come ingiuriose, discriminatorie e minacciose.-
Il Tribunale fiorentino[1], aderendo ai principi stabiliti dalla citata Cass. 21965/18, aveva stabilito che:
"trattandosi di messaggi vocali indirizzati a un gruppo chiuso, e quindi insuscettibili di diffusione all'esterno, sono equiparabili a corrispondenza privata, e non possono configurare atti idonei a comunicare o diffondere all'esterno affermazioni offensive, discriminatorie o minatorie, con conseguente insussistenza di fatto connotato dal carattere di illiceità".-
[1] Sul punto si veda anche https://www.ilperiscopiodeldiritto.it/l/dare-dello-strunx-al-datore-di-lavoro-in-una-chat-privata-non-giustifica-il-licenziamento-il-tenore-e-canzonatorio-ma-non-diffamatorio-commento-alla-sentenza-n-237-2018-del-tribunale-di-parma-sezione-lavoro/
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